Testi Teorici

1948

Del formalismo, “Art Club”, n. 16, Roma, gennaio

1951

Sono due spazi, in cat. mostra Arte astratta e concreta in Italia, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, febbraio; ristampato in: cat. Viareggio 1990; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“La pittura concreta è nata come fenomeno di libertà interiore, quasi una rivolta contro tutto ciò che poteva legare la creazione a schemi logori da tanti anni d’esercizio. Ed è stata anche rinnovamento e nel gusto e nelle forme, sì da segnare profondamente la nostra civiltà. Oggi, con mezzi nuovi e pensieri più vasti, è forse giunto il momento di procedere oltre per altre strade meno semplici ma necessarie se vogliamo veramente penetrare nella coscienza contemporanea. Nei primi anni di ricerche vestire in camice bianco e provare nella provetta la composizione chimica della pittura era necessario, vedere nella sua sostanza lo spazio elementare era necessario, saggiare la forza del colore era necessario, ma oggi son cose fatte. Non abbiamo più tra i piedi l’obbligo di colorire un volto o di definire un paesaggio, ma questo ci impegna ben altrimenti. Ecco il problema: innestare un mondo di esperienze e di tentativi in un più vasto interesse umano, senza ricadere nell’inutile simbologia o nel tecnicismo di natura narcisistica; non è questo un richiamo all’uomo o alla natura; bensì la sensazione di un mondo ancora da scoprire o forse solo da registrare, reso fino ad oggi solo in parte. Esistono due spazi, il mio, vostro, nostro, di tutti e un altro spazio: quello dell’arte; in quest’ultimo vivono forme e colori, che noi dipingendo rendiamo solo in parte, per quel tanto che è nelle nostre capacità di rendere. Vale a dire che in noi v’è la capacità di dipingere solo quello che è nostro particolare, ciò che è la memoria ci restituisce da lontane regioni. Mi si potrà accusare di fare della lettura; ma sono dell’opinione che quando occorre non v’è cosa che non debba essere fatta, qualsiasi tabù essa sia. Sporchiamoci le mani col fango se il fango ci può essere d’aiuto nella creazione. Per rendere chiaro quel mio concetto dei due spazi, mi voglio rifare alle origini; a Kandiskij e a Modrian, alla scoperta della forma pura e dello spazio duro. Per il primo dietro la forma esiste il vuoto indefinibile, per il secondo lo spazio non ha possibilità di movimento né di essere determinato e distinto con una forma in lui, vivente. L’importante fu proprio scoprire quei valori assoluti, ma dobbiamo noi continuare ad usarli con la stessa mentalità con cui furono intuiti da Kandiskij o da Modrian? Magnelli e Vantogerloo hanno condotto molto avanti quei valori assoluti, fino a quasi farli incontrare e fondersi, quasi. Il nostro problema è di far confluire questi due filoni in una grande composizione che assommi tutte le esperienze e ne faccia una sola, la sintesi concreta. Il concetto spaziale parte da questa contestazione, e dal riconoscimento tra lo spazio reale, per intenderci quello che ci circonda e lo spazio pittorico non vi è nulla in comune se non l’essere determinati in due modi opposti nello stesso tempo. Lo spazio pittorico o plastico è da noi percepito a frammenti tanto più grandi quanto lo può la nostra personalità. In questo consiste la grande scoperta dell’arte concreta. La forma di Kandiskij e di Magnelli e lo spazio di Modrian e di Vantongerloo sono lo spazio pittorico nei suoi particolari, diversi momenti di un assoluto. Se per giungere questo risultato è stato necessario dimenticarsi molte cose, una volta raggiunto lo scopo, non vi è ragione di dimenticarsi ancora quelle che furono le conquiste dell’arte barocca, estrema punta dell’arte della rinascenza. Le nostre composizioni sono ancora troppo elementari, basate sul concetto di un cetro compositivo, attorno al quale far muovere una forma o, nel migliore dei casi, di forme in spazi differenti, sempre però con un fuoco di composizione. Nuovi problemi si affacciano: non abbiamo ancora pensato alla luce, luce pittorica, la stessa definita in un certo modo da Caravaggio e da Rembrant, non abbiamo ancora pensato che il quadro continua al di là delle sue dimensioni, in un infinito verticale e orizzontale, non ci siamo resi conto che non basta eliminare la figura umana o l natura per fare dell’arte concreta, ma che questa eliminazione ci impegna maggiormente e che non tutte le soluzioni sono valide, solo perché concrete. La nostra pittura è stata semplice fino ad oggi, solo perché così è stato possibile eliminare il superfluo, ma continuare vuol dire ripetersi. Abbiamo tra le mani una grammatica, delle parole da poter dire più cose in una volta, più spazi in tempi diversi. Sotto il fondo bianco di Modrian si muovono altri spazi e altre forme, così come dietro le forme di Kandiskij e di Magnelli sono infiniti spazi e infinite forme. Cerchiamo di definirli. Vogliamo raggiungere la sintesi concreta.”

1952

Sull’arte astratta, “La Fiera Letteraria”, Roma, 27 luglio

1957

Nuova figurazione per la pittura, “L’esperienza moderna”, n. 1, Roma, aprile; ristampato in: cat. Viareggio 1990; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“Nella pittura contemporanea lo svolgersi e l’articolarsi del disegno interno del quadro (quell’ossatura base, su cui poi si costituirà tutta la trama del dipinto) ha avuto fasi alterne.Forse, meglio di ogni altro atteggiamento o polemica o gesto, l’attuarsi in particolari forme di questa struttura ha consentito il risolversi di molte situazioni di distacco e di trasformazione da una precedente abitudine formale. Il segno chiaro e preciso che delimita le forme o contiene i colori o costruisce l’immagine è la sintesi più evidente di una poetica e nel suo differente modularsi è compreso il differente modo di essere della pittura. L’ossatura cubistica conserva ancora nella sua perplessità di indagine e d’analisi il vecchio concetto a graticciata rinascimentale. Cambiano i piani, si riducono le dimensioni, aumentano i punti di vista, ma l’impronta, l’immagine l’ossatura stessa del quadro sanno ancora di Ingress o di Poussin. Le linee sono tracciate verticali e orizzontali e diagonali, intersecatesi o perpendicolari, ma l’immagine nasce ancora nella razionalità di una struttura, dell’equilibrio delle parti, della simmetria dei contrari. Ed è la rivoluzione cubista: quel movimento destinato a cambiare per gli anni a venire tutti i concetti della pittura. Ma la rivoluzione deve ancora attuarsi, fino a realizzare quell’immagine tracciata e disegnata, che il cubismo tentava di far intravedere, ma che non riusciva a rendere. Quel che deve essere fatto è il ritrovare la capacità d’investire tutta la realtà dell’esistenza nella traccia più elementare, nell’impronta più semplice d’un segno. E perché questo sia possibile occorre accettare altri modi d’essere dello spazio, un nuovo comporre per asimmetria e fuori campo, una funzione predominante dell’automatico, un ritorno continuo ed ossessivo della memoria. L’immagine nasce allora non in conseguenza di un elaborazione sistematica; ma per improvvisi sbalzi, per repentine riprese, per illogici ritorni. Né è difficile, ripercorrendo quanto è stato fatto negli ultimi anni, riconoscere in molte opere le qualità necessarie per qualificare come determinati in questo processo di trasformazione. Tutta la grafica espressionista poggiata essenzialmente sul netto rapporto tra nero e bianco, con crudezze di paesaggio e senza alcuna concessione al descrittivo, riporta il discorso dopo il dissolversi impressionista, nel concentrarsi dell’immagine; Kandiskij e Klee, che di quel discorso sono elementi primari, sviluppano e riducono ad una essenzialità drammatica quella forza espressiva. In taluni disegni di Kandiskij, intorno al 1915, la riduzione di una realtà naturale ad un puro valore di segno, quasi un ritorno all’ideogramma, conferma e sostiene un filone formale, che il cubismo prima e il neoplasticismo dopo, tentarono di annullare, in nome di ideali razionalistici e funzionali. Contemporaneamente Klee, nella stessa direzione, ricercava con un automatismo nevrotico un’immagine calligrafica del reale. Esperienze svoltesi sul terreno fertile dell’espressionismo e confluite più tardi nel surrealismo di Mirò, di Arp e di Gorky. L’automatismo ha ormai raggiunto la sua massima libertà. Il sogno si svolge, sovrapponendosi alla volontà dell’autore, divenendo alle volte spazio interno, facendo prevedere una continuazione irreale al di là delle dimensioni della tela o del foglio. I moduli compositivi non obbediscono più ad una legge di simmetria o di compensazioni e quando queste ci devono essere , trovano vita in spazi ben più grandi o ben più riposti e segreti, che illimitato rettangolo o quadrato di tela o di carta. L’immagine diviene allusiva, simbolica, emblematica, si lascia creare dal valore di una macchia o da un improvviso cedere della mano sul foglio o da un graffio incerto del pennino o di un chiodo. Il suo impegno con la realtà è talmente pieno e totale da comprendere ogni possibile momento del pittore, ogni suo ricordo , ogni sua occhiata, ogni sua presa di contatto con il reale. Il salto è terribile e complicato per uomini nati in una civiltà scarsa dal punto di vista fantastico, incerta nei suoi simboli, povera di miti. I calligrafi moderni giapponesi, Yoshimichi, Oyudaira Yayu, Shisui, Nankoku, Yukei e altri si rivelano difatti nella loro libertà espressiva ben più efficaci di pittori come Hartung o Kline. Ma la loro facilità di segno non raggiunge la solidità e la sintesi dell’immagine dei pittori occidentali. Importante è però il trovarsi su di un terreno comune d’indagine, con scambi di idee e di suggestioni dirette. Il ritorno ad una espressività del segno non è solo rivalutazione dell’espressionismo tedesco, dell’automatismo surrealista, o del drammatico mondo degli ultimi anni di Klee o scoperta di talune virtù in lontane calligrafie, ma è soprattutto il voler concentrare in un’immagine precisa, concreta, reale le incertezze, gli squilibri, le irrazionali paure che si vanno diffondendo nel nostro mondo civile. Gli anni a venire della nostra cultura saranno sotto il segno nevrotico dell’irrazionale. E la pittura ha già dato i primi avvertimenti.”

Documenti per una nuova figurazione, “L’esperienza moderna”, n. 2, Roma, agosto-settembre

1959

Dada est plus que Dada. Raoul Hausmann est plus que Raoul Hausmann, “L’esperienza moderna”, n. 5, Roma, marzo

1962

Scenografia come azione o come programmazione, “Sipario”, n. 200, Milano, dicembre

1963

Las razonas narrativas, Premio international de pintura, Istituto Torquato di Tella, Buenos Aires, 12 agosto – 8 settembre

1963

Le ragioni narrative della pittura, “Il Verri”, n. 10, Milano, ottobre; ristampato in: cat. Viareggio 1990; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006; cat. Roma 2006

“L’esistenza, ormai accertata da più parti, di una difficile fase di chiarificazione all’interno dei processi creativi, nelle arti visive originata, sia pure parzialmente, dall’esaurimento di quella esperienza che si ‘ evoluta con un termine incomodo informale, non deve però condurre all’errore di voler ridurre tutta la vastissima gamma delle poetiche contemporanee al passaggio obbligato per la ristretta porta dell’informale , e a voler quindi proporre come processo dialettico di superamento quanto si è andato elaborando in questi ultimi tempi. Non si deve cioè compiere lo stesso errore critico in passato volle far nascere tutta la pittura moderna dell’unica matrice impressionista, negando allora quanto concorse a dare sostanza all’espressionismo prima e al surrealismo poi. Questa tendenza a storicizzare i processi creativi, contrapponendoli in successioni precise, dimenticando la loro autonoma esistenza di sistemi linguistici, rischia come sempre di schematizzare i valori poetici, deformando e restringendo la loro possibilità di sviluppo. Ad esempio la ricerca di tipo concreto, costruttivista, neoplastico ha continuato a svolgersi durante gli anni del dilagare informale con propri accenti e caratteristiche , proponendosi come operazione diversa. Derivata dalle esperienze della prima avanguardia, sorretta dalla teoricizzazione operata tra le due guerre, ritrovata nuova forza e nuovi artisti con l’affermazione dell’astrattismo classico, questo sistema linguistico, superata l’accademia informale, trova oggi nuovi motivi espressivi nelle ricerche di arte programmata o neoconcreta. Non si pone cioè come contrapposizione dialettica all’informale , bensì come linguaggio parallelo preesistente, coesistente e successivo, rivelandosi in questa persistenza di valori e di esperienze come una delle costanti della ricerca contemporanea. Non è mia intenzione indagare e la storia e le strutture ideologiche e le necessità sociologiche che giustificano tale atteggiamento. Mi preme solo fare rivelare questa continua presenza di un sistema linguistico designabile come concreto o neoplastico prima, durante e dopo l’esperienza informale. Questo per negare che esista opposizione tra un sistema linguistico e un altro in un cieco e regolato alternarsi di esperienze. In conseguenza di ciò la storia della creazione umana non diviene più un continuo incrociarsi qual è, un felice e costante recupero di quanto è stato in quello che sarà, ma un meccanismo preciso di scadenze prevedibili e classificabili. La realtà sarebbe dunque determinabile con particolari operazioni statistiche. O con ricerche di tipo sociologico o antropologico, se volessimo considerare un’altra costante linguistica: quella che oggi si ritrova sotto i termini di new-dada art, nuovo realismo. Questa premessa è necessaria quando si vuole definire o per lo meno tentare di rendere comprensibili i termini di una ricerca, che si va affermando con strutture sue particolari e che non si pone in termini di successione o di opposizione ad altri sistemi linguistici in corso di svolgimento, bensì in posizione parallela. Per poter discutere le ragioni formali e le differenze sostanziali con gli altri procedimenti creativi è forse opportuno ritornare ad una definizione del vorticoso avvicendamento delle poetiche oggi in atto tratta da un concetto commerciale tipico della nostra società tecnologica: “ consumo rapido dell’arte”. Questa immagine suggerisce istantaneamente le ragioni psicologiche e sociologiche del fenomeno, i possibili addentellati con il mondo dell’industria, le influenze delle teoriche pubblicitarie, le esperienze dei designers. Vi è nella nostra società una spinta continua al ricambio, al rinnovamento soprattutto formale: tutto per assicurare una sicura continuità alle strutture. Anni or sono, quando non vi era ancora l’abitudine di applicare al fare dell’arte, uno studioso dell’ “industrial design”, Banham, elaborò un condensato di concetti applicabili al prodotto industriale progettato nell’era dell’automazione.

Questi erano:

a) L’uso dell’estetica formale è ingiustificato nella valorizzazione di un prodotto di grande consumo.

b) L’estetica di un prodotto deve essere transitoria.

c) L’estetica non deve dipendere dalla nozione esterna e astratta di qualità, ma deve derivare da un’iconografia di simboli socialmente accettati.

d) I simboli devono essere immediati e legati all’uso e alla natura del prodotto.

Non so quanto queste idee siano esatte, se applicate al design industriale. Esse però corrispondono ad una precisa esigenza dell’industria e del mondo commerciale. Da ciò se ne sono dedotti taluni atteggiamenti in campo artistico corrispondenti ed equivalenti. Se il fare porta come ipotesi di partenza il controllo delle varie tecniche operative, derivandole o addirittura prelevandole dal mondo industriale, non si vede perché in ultima analisi chi fruisce di codesto operare non possa assumere la veste di consumatore e quindi come tale deve essere sottoposto a tutti quei trattamenti ai quali il mercato da anni ci ha abituato, ivi comprese tutte le possibili tecniche pubblicitarie. E ancora non si vede perché il prodotto ottenuto con tali procedimenti non possa essere considerato esso stesso come un valore puramente transitorio, realizzato secondo un’iconografia di simboli socialmente accettati, immediati e strettamente legati alla natura e alle abitudini della società che lo produce. Arrivato a questo punto l’etichetta da applicare a questi prodotti può essere di marche diverse: pop art o ricerca neogestaltica, ma la qualità e la sostanza rimane identica. Rimane identica perché identico è l’atteggiamento rispetto al fare arte. Qual è l’elemento comune, che ci permette di dichiarare affini e complementari queste ricerche in apparenza così in contrasto? Anzitutto la loro consapevolezza, direi sociologica, del momento in cui operano; anche se come conseguenza ne traggono un diverso giudizio. E secondo, ma non meno fondamentale l’abbreviazione estrema dei tempi di lettura concessi allo spettatore. Questa riduzione che incide anche profondamente sulla durata estetica dell’opera porta con sé la necessità di una continua mutazione di ritrovati formali. Ci si limita a volere una visione immediata, simile sotto molti aspetti a quanto ci offre giornalmente la nostra società tecnologica con la pubblicità, la televisione, il cinema: visione di rapida lettura, impostata su di un tempo limitatissimo, che rende obbligatorie l’utilizzazione di tutti quei mezzi che la tecnica moderna ci offre-. Dall’effetto di shock pubblicitario all’oggetto quotidiano come azione scenica, al marchio di fabbrica come abitudine visiva di metafisicizzare. Chiarire tutti questi presupposti di molte delle ricerche attuali può servire a meglio caratterizzare, senza intenzioni teoriche o programmatiche, una nuova possibilità espressiva a comportamento narrativo. La differenza con le ricerche che abbiamo esaminato prima è essenzialmente di ordine strutturale. In un suo articolo Nello Ponente ha definito questo diverso comportamento: “ La funzione dell’arte non può essere soltanto di protesta, di contrapposizione, o addirittura, di abdicazione nei confronti della produzione industriale o della partecipazione alla spinta tecnologica impressa alla società. Deve inserirsi invece in questo processo, con la propria autonomia e con la propria diversa finalità, con una propria organizzazione che magari sfrutti, nella determinazione del proprio spazio, le limitatezze dei mass media, che li trasformi, li tolga all’abusato, li restituisca per elaborazione cosciente e intenzionata all’attualità dell’indagine estetica e quindi conferisca ad essi una nuova validità che sia anche morale”. Io aggiungerei che occorre considerare la possibilità di una lettura prolungata in tempi diversi e graduali, complessa nei temi esposti e nei significati possibili, continua nello spazio. Il quadro, nella situazione che stiamo esaminando, non richiede una visione diretta, ma divergente; pretende tempi rapidi alternati ad osservazioni lentissime, vuole prolungare l’emozione al di là dell’oggetto, fino ad utilizzare in maniera preponderante la memoria più che l’occhio. Citando Bergson: “ Nessuna immagine sostituirà l’intuizione della durata ma molte immagini diverse tolte a ordini di cose assai differenti, con la convergenza della loro azione potranno dirigere la coscienza sul punto preciso in cui c’è da cogliere un’intuizione determinata”. Questa operazione di messa a fuoco di un momento vissuto, questo farsi della memoria rifiuta ogni immediata percezione, ogni possibilità di sintesi formale, ogni teorica di spazio unitario e prospettico, per tentare di definirsi come narrazione, come riduzione del reale all’ipotetico, come passaggio del vedere all’immaginare. È una pittura di ipotesi più che di forme: di ipotesi di eventuali funzioni disposte rispetto alla realtà non più dialetticamente o contrapposte ma in termini di equivalenza. E qui il narrare pittorico si raffronta al romanzo come genere, nei modi come l’intende Altheim: “ Caratteristica del romanzo, nell’antichità come ai giorni nostri, è invece la sua tendenza ad abbracciare la totalità: esso restituisce il vivente nella sua inesauribilità, l’illimitato le forze e le possibilità ovunque operanti”. E per romanzo non ci si vuole limitare ad un genere o ad una forma espressiva, ma si vuole conglobare in esso poesia e prosa, cinema o teatro in un particolare rapporto con la realtà. “ Vogliamo non già la forma, bensì la funzione” scrisse Klee, e in questo caso che io tento di descrivere con tutte le difficoltà che nascono nel trattare qualcosa nel momento del suo farsi, e con l’intenzione di chiarire, più che agli altri, a me stesso le fasi di questo processo, codesta aspirazione rappresenta il punto centrale. Occuparsi della funzione significa porre l’accento più che sul valore della singola opera sulla continuità e sulla persistenza di particolari elementi strutturali. Significa non più porsi un problema di rivestimento ma tentare una indagine sulla reale consistenza delle strutture, siano esse di ordine sociologico o di provenienza archetipa. Significa scavare nella sostanza dell’umano per l’elaborazione di un complesso formale non più sintetico, bensì paratattico.”

1964

Esperienze di un corso di metodologia visiva, “Marcatré”, luglio

Il narrare, in cat. mostra n. 11 Achille Perilli, Genova, Galleria del Deposito, Gruppo Cooperativo di Boccadesse; ristampato in: Linee di ricerca artistica in Italia, 1960/1980, vol. II, Roma, 1981

1966

Theatre: Visual Action, “The international Times”, 28 novembre

1969

Indagine sulla prospettiva, “Grammatica”, n. 3, Roma, luglio; ristampato in: cat. Venezia 1969; cat. Varsavia 1969; cat. Praga 1970; “Art and artists”, n. 10, gennaio 1970; “Graphis club”, Roma, febbraio 1971; “Il Margutta”, n. 6, Roma, giugno 1972; cat. Siena, 16 dicembre 1972-4 gennaio 1973; “Res publica”, n. 1, Milano, settembre 1979; cat. Viareggio 1990; cat. Ancona 1998; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“L’attuale situazione del lavoro creativo è segnata da una profonda crisi rispetto al fare. Crisi che ritrova le sue ragioni nel rapido scomparire di una società contraddittoria e condizionata dalla fatica del lavoro umano e dall’affermarsi di un nuovo modo d’intendere i rapporti di produzione e di consumo. La società del consumo e della tecnologia, non riesce però a nascondere la profonda mancanza di rapporto con la realtà umana. Nella cultura occidentale per decenni si è affermata una tendenza ottimistica, volutamente accentuata dalle classi dirigenti, dal mondo capitalistico di una costante progressione al meglio, al perfezionamento, al design, a quell’ideale “ Age d’or” che la macchina e l’industria promettevano, in nome del profitto: quindi si è accresciuta la spinta ad annullare tutte quelle ricerche, tutte quelle poetiche, che per loro natura potevano porre in dubbio questa artificiosa spinta. Allora letta questa luce, la teorica bauhausiana di Gropius mostra la propria vera natura socialdemocratica e le voci che proclamano la morte dell’arte si rivelano sempre di più concorrenti a creare una situazione nella quale quel massimo di dubbio mentale che è la ricerca sulle strutture linguistiche sia essa pittura sia essa architettura sia essa letteratura sia essa teatro deve essere messa a tacere perché un probabile reagente all’intossicazione totale. Il fare oggi è contraddistinto nei due possibili atteggiamenti, che ripropongono nella loro alternativa l’accettare o il rifiutare un particolare modo di essere nella nostra società a livello di classe dirigente o di classe borghese. Accettazione o negazione della società del consumo e dell’informazione. Accettare significa dissolvere nel caotico concetto della morte dell’arte ogni possibile spinta rinnovatrice, ogni possibile mutazione linguistica, ogni verifica sulle strutture del visivo. Accettare significa farsi coinvolgere in una serie di rituali consumistici e cannibaleschi che, dal multiplo all’arte povera, conducono alla tranquilla e inerte condizione di “ assimilado” ( nel senso usato dai portoghesi in Africa) dell’artista. Io, al contrario, credo al rifiuto come atto operativo. Quindi non comunicare o comunicare in modo ambiguo o prolungare i tempi della comunicazione o ridurre l’informazione visiva al livello dell’immagine del labirinto. Se il linguaggio è universo a se stante (ogni universo è in primo luogo un universo in quanto è proprio una morfologia ed è sottoposto a tutto il rigore e a tutta l’arbitrarietà della morfologia) e se la pittura è un linguaggio che si propone di volta in volta con la presenza esistenziale del pittore e con la sequenza del suo lavoro ( e non con la singola opera) di determinare la condizione del suo esistere: allora la verifica che noi possiamo operare sulla validità linguistica, all’interno delle leggi stesse che regolano quel linguaggio, all’interno delle sue proprie contraddizioni, che creano il movimento e lo sviluppo. La sequenza annulla il valore singolo dell’intuizione e introduce il concetto della ricerca contrapposto a quello della creazione. Il lavoro della fantasia si compie quindi non più per gesti isolati, ma realizzando una struttura elaboratrice di dati, atta nel suo svolgersi ad analizzare i nuovi materiali emersi ad organizzarli in nuovi moduli espressivi. Tale lavoro significa voler produrre una nuova situazione linguistica articolata su tempi più o meno lunghi di attuazione, comprendendo il farsi dell’opera e la sua lettura. Questo modo di essere della ricerca visiva oggi è possibile solo se effettuata sulle strutture primarie e derivate del linguaggio, sul suo modo di organizzarsi, sulla sua autonomia al di fuori di ogni riflesso condizionante. Se il linguaggio o meglio se la pittura è organizzazione e solo organizzazione di sé stessa, è solo all’interno del suo modo di essere che è possibile essere rivoluzionari e conservatori. Solo cioè lavorando sui modi di svolgersi dell’immagine interna (l’immagine mentale è l’immagine che si descrive quando si descrivono le proprie rappresentazioni. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche n.365). E qui rappresentazioni stanno per segni o agglomerati di segni o catalogazioni di segni. In questa direzione i coaguli linguistici più interessanti sono concentrati su di una serie di problemi che riguardano il catalogo, la sequenza, il “bricolage”, l’ambiguità spaziale, le relazione tra segno e ideologia, il concetto di Wabi, l’asimmetria, la complessità sintattica e soprattutto in modo fondamentale il rifiuto alla comunicazione, l’impossibilità del consumo, ogni possibile reale e concreto ostacolo alla accettazione dell’ideologia dominante, quella che regola la creazione e il consumo del prodotto medio artistico attuale. Il rifiuto della comunicazione si pone quindi come atto operativo, come possibilità di ricerca, come atto di fare. Rendere indecifrabili i messaggi, alterare i contenuti, capovolgere i significati, falsificare i concetti, questo significa operare in senso rivoluzionario sui problemi creativi. La struttura pittura permane poiché è il nostro modo di comprendere il mondo, la realtà, è la nostra azione sul terreno della fantasia, è il nostro raggiungere la luna, un’altra faccia della luna. E pittura è una tecnica, è un modo operativo che si attua in una serie di avvenimenti espressivi, comunque realizzati. Mondrian ha scritto “ L’arte è un gioco e i giochi hanno le loro regole” e se nel determinare la regola nasce il concetto di struttura linguistica è evidente, per unsare una frase di Manganelli che la pittura”… possiede e governa il nulla, lo ordina secondo il catalogo dei disegni, dei segni e schemi”. È questa operazione sul vuoto, all’interno del complesso universo dell’uomo, che noi definiamo pittura ricavando le leggi e i valori da una serie di analisi derivate dallo svolgersi delle esperienze. Fondamentale come componente di analisi e come componente di valore creativo è l’ideologia, che però si concreta come strumento e non come matrice del fare, e in questo porsi, accetta anche la possibilità di rinnovarsi per lo svolgersi dei fatti. Date queste premesse, il mio lavoro attuale, dopo una sequenza dedicata al problema della narrazione (da non confondersi con la nuova figurazione) e quindi a tutti i nessi che tale ricerca comporta: dai significati ai simboli, dai tempi di lettura alla permanenza dell’immagine, dalla successione dei dati visivi alla azione della memoria come componente principale della visione, si è fermato sul concetto estremamente ambiguo di prospettiva, che in sé già racchiude tutta una serie di falsificazioni dei dati visivi. La prospettiva, per secoli è stata una classificazione del mondo operata con strumenti non reali, non corrispondenti, non veri: direi una serie di preconcetti stabilizzatisi in una scelta ben altrimenti animata da correnti sotterranee e vizi segreti. La nostra cultura occidentale sulla base di una serie di convenzioni ci tramanda e ci consiglia una sistemazione del nostro spazio mentale, che serve a soffocare ogni possibile variante o innovazione. La prospettiva è la forma più repressiva della fantasia che una classe dominante possa immaginare. Ma la fantasia ha strade e uscite sotterranei ben altrimenti operanti e nessuna struttura regolatrice la potrà contenere. Però permane la prospettiva come concezione, come griglia di lettura, come segnale. Ed è su questa categoria artificiale, che grosso modo possiamo chiamare prospettiva, che si svolge la mia analisi, cercando di inglobare elementi ritenuti certi dall’ottica e falsificati attraverso una serie di interferenze di altri valori ( colore, tono, segno, struttura) agenti al livello di una verifica parziale e dissociati da una analisi globale. L’ambiguità del messaggio in tal modo viene aumentata con l’acquisizione di una serie di momenti successivi di lettura, incapaci di dare un ordine ai valori ottici. Ed è in questo alternarsi, che esiste per me la capacità di non essere definito secondo uno schema di lettura abituale (alto, basso, destra, sinistra, nero e bianco). La griglia proposta si scompone in una serie di griglie non collegabili, se non attraverso una meccanica realizzabile, non già all’interno di un singolo quadro, ma dilatabile a tutta la serie dei quadri e anche con dei percettibili spostamenti verso quanto potrebbe avvenire in un futuro incerto. Cosi il discorso si dilata, non si concentra più solamente se dei valori di qualità o di profitto e tende ad inglobare settori della conoscenza, che una serie di tabù e di leggi tendevano a sottrarci.”

Le mie incisioni, in Le incisioni di Achille Perilli, Edizione Grafica Romero, Roma; ristampato in cat. mostra Achille Perilli, Zagabria, Galleria Forum, 1971; Gli artisti per il Pci, nel 59º anniversario della fondazione del partito, Roma; Le vele del tempo, Chiaravalle (An), 2003

1971

Manifesto della folle immagine nello spazio immaginario, in cat. mostra Achille Perilli, Roma, Galleria Marlborough, marzo; ristampato in: cat. Milano 1971; cat. Torino 1971; “Panorama delle arti”, n. 4, Milano, maggio 1971; cat. Siena, 16 dicembre 1972-4 gennaio 1973; cat. Zurigo, 1973; cat. San Marino, 1982; cat. Parigi, 1984; cat. Ancona 1998

1974

Theorie de l’irrationnel géometrique, “Opus international”, n. 53, Parigi, novembre

1975

Machinerie, ma chère machine, in cat. mostra Achille Perilli, Roma, Galleria Marlborough, aprile-maggio; ristampato in: cat. Palermo, 1975; cat. Messina, 1976; “Prato Eventi 76”, Prato, settembre; cat. Ferrara, 1977; Linee di ricerca artistica in Italia, 1960/1980, vol. II, Roma, 1981; cat. San Marino 1982; cat. Cagliari, 1983; cat. Parigi 1984; “D’Ars”, n. 87, luglio 1978; cat. Viareggio 1990; cat. Ancona 1998; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“MACHINERIE

Nf Construction de machines

Ensemble de machines employeés à un travail

Petit Larousse illustré, 1909

Machinerie, meglio di macchina o di machine è per me un’idea di struttura complessa utilizzabile per percorsi mentali, capace di realizzarsi solo attraverso una lettura continua e prolungata e talmente ambigua da non avere significati precisi o riferimenti fissi e sensibile ad ogni complicità letteraria e ad ogni influenza proveniente da altri territori e pianeti. Si realizza in questa fase della ricerca bidimensionalmente proprio per il maggiore margine di falsificazione che offre questa situazione: dove il volume è trascritto in termini di linee e colori tali da essere costantemente riportato alla superfice. È la continuazione di quella operazione di mistificazione e di manipolazione della prospettiva definita dal Manifesto fella Folle Immagine nello Spazio Immaginario (febbraio 1971). La Folle Immagine diventa Machinerie, entra in una fase più complessa della ricerca e il termine riesce a far assorbire nei suoi significati i riferimenti agli apparati teatrali e alle astratte costruzioni verbali e ancora agli indecifrabili e labirintici territori del cervello umano. Hausmann ritraeva Tatlin, immergendogli nel cranio una quantità di strumenti scientifici, quasi a giustificarne e simboleggiarne la vocazione tecnologica. Oggi il termine machinerie sta ad indicare un’operazione mentale opposta alla mitologia della macchina, atta ad elaborare e a definire strutture variabili in continua modificazione e soprattutto non riscontrabili nella realtà. È un procedimento parallelo del “lavoro onirico, che tende alla trasformazione dei pensieri latenti in forma figurata” (Freud). La machinerie è un insieme costruito su leggi dettate dalla logica assurda di una metodologia irrazionale: leggi che, una volta determinatesi, procedono in modo autonomo alla strutturazione dell’immagine nello spazio. Ci si propone, come scrive Roussel, “di far sorgere una specie di equazione di fatti” da risolvere logicamente. “E sono machineries dentro le quali s’intravede la logica di invenzione della demoiselle di Roussel, o della macchina scrivente della Colonia penale di Kafka o dell’autonoma di Gaston Leroux: tre modi diversi di scrivere macchine. Di scrivere non descrivere. La mia machinerie naturalmente non vive, se non per rapporti paralleli, con questi antenati letterari, perché il problema posto è quelllo di “ configurare lo Spazio Immaginario attraverso un oggetto materiale” come già avevo citato da El Lisitskj. O meglio attraverso una struttura o un insieme di strutture. Dal rapporto tra due moduli geometrici, talora in contrasto, talvolta simili, ma leggermente variati, nasce una sequenza che tende a spostarsi nello spazio sino a dilatarsi di quadro in quadro, a svilupparsi, a coinvolgere nella ricerca più elementi, aumentando costantemente la complessità dell’indagine sullo Spazio Immaginario. E anche la lettura di queste sequenze propone dei percorsi, frantumando l’idea di spazio centrale o di spazio superfice o di spazio luce. Il penetrare e il rimanere fuori, il percorrere e il fermarsi sotto atti del vedere e non del percepire, che pretendono scelte autonome per ognuna delle molteplici possibilità che l’immagine offre. Non è necessario cambiare o spostare l’ordine della sequenza: la mutazione, la trasformazione è nei modi di vedere la struttura: nell’ambiguità che nasce dal trasferimento da un piano all’altro, da una legge cromatica all’altra, da un pieno ad un vuoto nello stesso tempo . la lettura e l’osservazione si devono prolungare nel tempo fino alle successive fasi di memorizzazione, per poter essere in grado di analizzare le molte possibilità di interpretazioni che si offrono, non limitandole mai alla sola struttura formale, bensì considerando anche tutti quei materiali inconsci nel collettivo, venuti alla coscienza da quegli strati del profondo, ai quali è stato possibile arrivare. È un’operazione che tende all’ampliamento, non alla riduzione; che sposta continuamente la ricerca del percettivo mentale, rifiutando ogni minimalizzazione delle problematiche concentrate oggi nel visivo: anzi dilatandole fino ad intervenire su quegli spazi ancora ignoti tra codice e codice, coinvolgendo strutture linguistiche aliene. E forse la ragione di un tale atteggiamento può ritrovarsi emblematicamente in una frase di Roussel da Comment j’ai écrit cetrains de mes livres: “Chez moi l’imagination est tout”.”

1976

L’esperienza moderna, in cat. mostra “L’esperienza moderna”, Roma, Galleria Marlborough, febbraio; ristampato in cat. mostra Gastone Novelli 1925-1968, Trento, Palazzo delle Albere, 14 maggio- 22 settembre 1999

1982

Noi diciamo intercodice, in AA.VV., Paesaggio metropolitano, Milano

1982

Teoria dell’Irrazionale Geometrico, “Retina”, n. I, Milano, giugno; ristampato in: cat. San Marino 1982; cat. Parigi, 1984; cat. Omegna, 1989; Venticinque anni di Accademia 1964- 1989, Roma; cat. Ancona 1998

1984

Dei modi di dipingere l’invisibile, in cat. mostra Dorazio-Perilli-Santomaso-Turcato-Valenti, Francoforte, Fankfurter Westend Galerie, novembre -febbraio (trad. tedesco); ristampato in: cat. Rovigo, Accademia dei Concordi, 1986; trad. francese in cat. mostra Forma 1 1947-1987, Musée de Brou, Bourg en Bresse, Galerie Municipale d’art Contemporain, 13 aprile-15 giugno 1987; cat. Ancona 1998; cat. Portogruaro, 2000;cat. Milano, 2004; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“Nel momento in cui l’occhio si ferma, per la lettura, sulla superficie di un quadro, bloccato da quell’insieme di leggi che costituiscono la struttura dell’opera e istintivamente va cercando quel centro, che è all’origine della creazione e ne ripercorre gli svolgimenti, rimane condizionato da quei confini che sono la dimensione dell’opera. Altezza e basi rappresentano la rottura con una continuità che può essere soltanto sviluppata con altri mezzi che non siano quelli retinici. E neppure con il sogno: poiché questo è il versamento dell’inconscio del pittore nel più generale serbatoio dei materiali onirici collettivi. È, come in questo caso, il vedere diverso dell’occhio che consente di ricostruire una continuità alla visione fuori dai confini sensitivi con l’accentuarsi di taluni tic formali e ripetersi di moduli alterati e lo svuotamento improvviso dello spazio e la dinamica direzionata fuori dalla bidimensionalità apparente. L’immagine esce dalla tela e prosegue con movimenti invisibili a spostarsi nello spazio, non permettendo di classificare le traiettorie, che ormai sono soltanto intuite, ma non determinate dalla complessità combinatoria che le sviluppa. Il meccanismo di percezione è dato quindi con il massimo margine di ambiguità possibile, consentendo la trasmissione più ampia di messaggi e simboli.”

1989

Prolegomena to a book about Forma 1, in cat. mostra Achille Perilli. Forma 1, Mantova, Galleria Corraini, novembre

1990

Autoritratto, in cat. mostra Achille Perilli opere scelte 1956-1960, Milano, Galleria Tega, febbraio- marzo; ristampato in: cat. Viareggio 1990; cat. Bolzano, 2003

A proposito di “altro Zaum”, in cat. mostra Russia 1900-1930, l’arte della scena, Venezia, Ca’ Pesaro, giugno

1992

Il caldo sapore della carta, in cat. mostra Achille Perilli. Le carte e i libri 1946-1992, Roma, Calcografia, 18 febbraio-22 marzo; ristampato in cat. Ludwighshafen, 1993

1996

Gli alberi, incat. mostra Gli alberi e i grandi, Roma, Galleria De Crescenzo e Viesti; ristampato in: cat. Milano, 1998; “Metek” 2, marzo 1998; cat. Ancona 1998; cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“L’albero nella sua essenza organica, secco e ormai tagliato, rivela il trascorrere degli anni nel costruirsi come forma, con una serie di deformazioni e di forzature di rami, per il piegarsi e lo storcersi del tronco, e soprattutto nel crescere di cicatrici e altre ferite e nell’accumularsi dei nodi che segnano la sua presenza nello spazio e la sua durata nel tempo. Se poi il tronco percorre un fiume, ristagna in acqua, si adagia su di una riva, un’ulteriore metamorfosi plastica si concretizza, divenendo un’immagine tesa contro il cielo, se rialzato, e fissato al terreno. Dall’organico alla struttura lignea e operando sulla superfice, inseguendo i rilievi, evitando i nodi, valorizzando le nervature, si riesce ad inserire una struttura di geometrie complesse muovendosi tra pieni e vuoti, tra materia del legno e valori cromatici, tra toni invecchiati in un bagno di foglie e arbusti e parti lavorate e lucidate. Si arriva a quella comunicazione complessa che dall’origine è il problema fondamentale del mio lavoro. La scommessa da vincere è portare nel tridimensionale quanto sono riuscito ad accumulare come immagine sulla superfice della pittura, per poter penetrare nel più profondo mistero del nostro modo visivo.”

1997

L’intercodice tra passato e futuro, “Lettera internazionale”, Roma, luglio

1998

I distorti e le argille, in cat. mostra Achille Perilli. I distorti e le argille 1996-1998, Salerno, Galleria Paola Verrengia; ristampato in: cat. Darmstadt 2005; cat. Frascati 2006

“A Montecorvino Rovella, tre anni fa mi sono scontrato con l’argilla di Pompei. Non era la prima volta che trafficavo con questa materia: fin dagli inizi degli anni Cinquanta, in un laboratorio sperimentale, avevo progettato forme e provato colori per realizzare una produzione artigianale di ceramica. E poi in anni recentissimi a Ficulle e ad Orvieto mi ero ritrovato intrappolato in questa ricerca.Ma solo una grande tegola, un impluvio della pioggia realizzata per il restauro di un edificio pompeiano, mi ha prodotto un colpo di fulmine, una vera ansia creativa, un gusto quasi sensuale del fare. L’idea di poter ricavare strutture e forme da una superficie segnata da fuoco di un grande forno a legna: uno degli ultimi superstiti, capace di inghiottire tonnellate di argilla trasformata a mano in mattoni, mattonelle e tegole e ogni altra forma utile per rivestire, coprire e pavimentare; l’idea infine di poter recuperare da quell’antro di Vulcano quella tensione primaria da creazione del mondo mi ha spinto in questa avventura.Il vaso distorto cresce e si accumula, elemento sopra l’elemento senza un centro, sbilanciato quasi a perdere l’asse di equilibrio; il peso spostato in avanti, irregolare e discontinuo, forma desconcentrata e squilibrata si affianca alla tegola scolpita con un’insana e distorta geometria, affiancando il colore acceso al sapore aspro dell’argilla, arroventata dal fuoco. È stato un percorso lungo tre anni, durante i quali le forme si sono perfezionate e raffinate, anche per il lavoro straordinario di Raffaele Falcone come modellatore sul tronio che ha piegato la materia ai miei arrischiati progetti. E con il concorso di Nando Vassallo, il coloritore, siamo finalmente arrivati a questo risultato che è una mostra dal titolo I distorti e le argille.”

L’allegria del colore, in cat. mostra L’allegria del colore, Achille Perilli, Genova, Galleria Rotta, 22 maggio-10 giugno; ristampato in: cat. Ancona 1998; cat. Portogruaro, 2000;cat. Roma, 2005; cat. Frascati 2006

L’argilla di Pompei, Salerno, Galleria Paola Verrengia

2000

Las Meninas, in Achille Perilli, Rex;ristampato in cat. Frascati 2006

La geometria dell’irrazionale, in Matematica e Cultura 2000 (a cura di L. Emmer), Springer

De insana Geometria, in Mathematics and Culture II, (a cura di L. Emmer), Springer